CANTI DELL’EMIGRAZIONE BERGAMASCA
di Piergiorgio Mazzocchi – Tratto dalla rivista Terra Insubre – Lughnasa 2003

Il fenomeno dell’emigrazione è sempre stato presente in molte aree della Padania fin dal medioevo, in modo particolare nelle zone alpine e sub alpine. Dall’emigrazione più antica che raggiungeva i porti di Venezia e Genova, dove corporazioni di scaricatori gestivano dei moli: il molo più importante di Genova era concesso in esclusiva ai bergamaschi, ed ancora all’inizio del XX secolo molte donne del popolino genovese venivano a Bergamo a partorire per poter garantire l’accesso ai lavori di scarico, ed avere quindi in futuro un posto di lavoro garantito per i loro figli. Il porto di Livorno nel ‘500 era gestito esclusivamente dagli abitanti del comune di Urgnano (Bergamo), e soltanto dopo cento anni venne concesso loro il diritto al ricongiungimento familiare, per questo c’erano delle pause per il rientro e dar modo di formarsi una famiglia. Altri ancora emigravano, invogliati da sgravi fiscali dei regnanti locali, per lavorare il ferro e produrre attrezzi e armi nelle zone minerarie: è accertata da secoli la presenza dei bergamaschi nelle valli di Lanzo, in Austria, o dei bresciani e bergamaschi in Lunigiana, anche se queste furono migrazioni senza ritorno più che emigrazioni e di questi periodi, ormai troppo lontani, non abbiamo canti che trattano l’argomento vero e proprio, ma abbiamo molte canzoni che richiamano spessissimo il mare, la barca, l’affondamento, cose totalmente estranee ad una cultura alpina e che probabilmente si rifanno ai periodi trascorsi in laguna o in zone marittime. In altre canzoni e ballate molto antiche ci sono riferimenti all’Inghilterra, ma soprattutto alla Francia ed è piuttosto difficile dire se si tratti di testi che si possano riportare ad un fenomeno migratorio o dovuto più a scambi di tipo commerciale o culturale.

Il canto d’emigrazione vero e proprio rimasto ancora vivo è quello dei secoli XIX, XX, più vicini a noi come periodo storico e durante i quali il fenomeno emigratorio assume proporzioni più vaste e diverse da quelle dei secoli precedenti.

Alla fine del ‘700 cominciano le prime compagnie di carbonai e taglialegna che stagionalmente si recano in Francia. Nell’800, soprattutto dopo il 1870, con l’aumento di popolazione, le annate agricole scarsissime e l’infausto fenomeno dell’unità nazionale, che fece sprofondare le piccole economie locali, con l’eccessiva tassazione e l’esproprio dei beni comunali utilizzati per il sociale e quindi a favore dei meno abbienti e degli indigenti, comincia per tutta la penisola il fenomeno dell’emigrazione verso le Americhe:

Mamma mia, dammi cento lire
Che in America voglio andar 
Cento lire io te le do
Ma in America no, no, no
Mamma mia, dammi cento lire
Che in America voglio andar 
Cento lire le scarpette
Ma in America no, no, no
Cento lire le scarpette
Ma in America no, no, no
I suoi fratelli alla finestra
Mamma mia, lassela andar 
Vai, vai pure o figlia ingrata
Che qualcosa succederà
Vai, vai pure o figlia ingrata
Che qualcosa succederà
Quando furono in mezzo al mare
Il bastimento si sprofondò
Pescatore che peschi i pesci
La mia figlia vai tu a pescar?
Pescatore che peschi i pesci
La mia figlia vai tu a pescar?
Il mio sangue è rosso e fino
I pesci del mare lo beveran 
La mia carne è bianca e pura
E la balena la mangerà
La mia carne è bianca e pura
E la balena la mangerà
Il consiglio della mia mamma
L’era tutta la verità (la verità)
Mentre quello dei miei fratelli
Resta quello che m’ha ingannà
Mentre quello dei miei fratelli
Resta quello che m’ha ingannà

Questa canzone è presente in tutto il nord ed è entrata di fatto nel repertorio tradizionale più puro. Quella che segue, può esser definita “l’inno dell’emigrante” per eccellenza. In questo canto esplode la disperazione la rabbia del dover partire, l’orgoglio di appartenenza e di identità, la durezza della nuova situazione e alla fine la soddisfazione dell’aver superato tutte queste difficoltà e aver dato al mondo un contributo per essere migliore. Si evidenzia comunque la propaganda che si insinua a creare una nuova identità italiana tutta da creare, mentre la prossima fa parte del repertorio dei “fogli volanti”.

 

Dall’Italia noi siamo partiti

Siamo partiti col nostro onore
Trentasei giorni di macchina e vapore
E alla Merica noi siamo arriva’
Merica, Merica, Merica
Cosa sarà mai questa Merica?
Merica, Merica, Merica
È un bel mazzolino di fior
Alla Merica noi siamo arrivati
Non abbiam trovato né paglia e né fieno
Abbiam dormito sul nudo terreno
Come le bestie abbiam riposa’
Merica, Merica, Merica
Cosa sarà mai questa Merica?
Merica, Merica, Merica
È un bel mazzolino di fior
E la Merica l’è lunga e l’è larga
L’è formata dai monti e dai piani
E con la industria dei nostri italiani
Abbiam fondato paesi e città
Merica, Merica, Merica
Cosa sarà mai questa Merica?
Merica, Merica, Merica
È un bel mazzolino di fior

Non sempre i viaggi avevano un esito positivo, accaddero anche dei naufragi, come quello del “Sirio”, il 4 agosto del 1904, che lasciarono negli emigranti un profondo ricordo.

E da Genova il Sirio partivano
Per l’America varcare varcare il confin
Ed a bordo cantar si sentivano
Tutti allegri del suo, del suo destin
Urtò il Sirio un orribile scoglio
Di tanta gente la mise- la misera fin

Padri e madri bracciava i suoi figli
Che si sparivano fra le onde del mar
Più di centocinquanta annegati
Che trovare nessuno, nessuno potrà
E fra loro un vescovo c’era
Dando a tutti la sua bene- la sua benedition

Ad una certa propaganda per favorire il fenomeno migratorio in America, molto spesso arriva la risposta della controparte, infatti ci si imbatte in stornelli composti a proposito, come questo ad esempio, apparentemente di origine popolare, ma invece d’autore. Si tratta di un brano presentato al concorso per la” Canzone Lombarda” nel 1892 autori Tarenghi, A. Ferrari Paris, e riproposto da Luciano Ravasio.

‘Ndé piö in America
‘Ndé piö ferméss a cà
sé v’preme la salüte
se v’preme la salüte
‘Ndé piö in America
‘Ndé piö ferméss a cà
se v’preme la salüte
e anche la libertà

S’ pöl ciamà l’America
Mercat chè i vend i bianch
I sfrötadur, la piovra
Chat süga töt ol sanch

Partire è sempre una cosa brutta se non è per libera scelta e allora la rabbia esplode, Il brano raccolto a Valcanale (BG) nel 1973 dal Foppolo, non riporta la musica, c’è un testo analogo nel repertorio toscano e secondo me si tratta di un canto anarchico della fine dell’800, entrato nel repertorio degli emigranti con l’aggiunta della parte finale nel testo bergamasco, a dimostrazione del fatto che spesso ci sono varianti locali o di tipo estemporaneo che portano un testo d’autore ad una dimensione di spontaneità popolare.. In quel periodo nacquero delle comuni anarchiche, soprattutto in Brasile, fondate da idealisti e perseguitati politici, costretti a fuggire dal regime di allora.

Italia bella, mostrati gentile
E i figli tuoi non li abbandonare,
Sennò ne vanno tutti ni’ Brasile
E ‘un si rìcordon più di ritornare
Ancor qua ci sarebbe da lavorà,
Senza stà in America a emigrà.

Il secolo presente qui ci lascia,
I’ millenovecento s’avvicina;
La fame ci han dipinto sulla faccia
E per guarilla ‘un c’è la medicina
Ogni po’ noi si sente dire: E vo
Là dov’è la raccolta del caffè.

Nun ci rimane più che preti e frati,
Monìcche di convento e cappuccini,
E certi commercianti disperati
Di tasse non conoscono i confini.
Verrà un dì che anche loro
 
Ragazze che cercavano marito
Vedan partire il loro fidanzato,
Vedan partire il loro fidanzato
E loro restan qui co’i sor curato.
Verrà un dì che anche loro dovran partì
Là dov’è la raccolta del caffè.

Recitato
L’operaio non lavora
E la fame io divora
E qui’ braccianti
‘Un san come si fare a andare avanti.
Spererem ni’ novecento,
Finirà questo tormento,
Ma questo è il guaio:
Il peggio tocca sempre all’operaio.

Le case restan tutte spigionate,
L’affittuari perdano l’affitto,
E i topi fanno lunghe passeggiate,
Vivan tranquilli con tutti i diritti.
Verrà un dì che anche loro dovran partì
Là dov’è la raccolta del caffè.

non si emigra solo per fame, indigenza, motivi politici, c’è anche chi è più “sportivo”: e chi più della lingera?

La compagnia del fil dè fer
La compagnia del fil dè fer
L’è ‘ndacia ‘ Fransa

L’è ‘ndacia ‘n Fransa a lavorar
L’è ‘ndacia ‘n Fransa a lavorar
Per la Gigiòta

E la Gigiota la gà ‘l pipì
E la Gigiota la gà ‘l pipì
E la Gigiota la gà ‘l pipì
Per la palanca

 

Nell’emigrazione bergamasca e bresciana è fortissima la presenza di bergamaschi e bresciani nelle miniere o nei lavori di traforo e galleria delle Alpi, questo sia perché c’era un esubero di mano d’opera, sia perché in queste due province c’era già una tradizione della miniera per la presenza di minerali sfruttati già nell’antichità e quindi operai già esperti. La patrona protettrice dei minatori è Santa Barbara e questa è una delle tante versioni dell’inno dei minatori.

Anche mio padre sempre me lo diceva
Di stare lontano de la miniera
Ma io testardo ci sono sempre andato
Finché di una mina mi ha rovinato

Finché una mina di quella galleria
Ha rovinato la vita mia
Non c’è né medici e nemmeno professori
Che fa guarire quei giovani minatori

o Santa Barbara, o Santa Barberina
dei minatori sei la Regina

La vita in miniera è durissima, con situazioni ancora più dure rispetto ai secoli precedenti, quando il minerale veniva cavato stagionalmente, e c’era quindi la possibilità di scegliere i momenti migliori anche dal punto di vista climatico e ambientale. La morte in miniera è sempre in agguato e a pagare sono quelli costretti ad andare lontano per cercare lavoro

Uscii dall’avanzamento allegramente
Contento di aver fatto il mio dover
Ma la disgrazia era ormai decisa
Già prima di sortir di galleria

Avanti avanti, quando il destino fu
Un grande scoppio fece i blocchi cascan giù
Avanti avanti dove il destino c’è
Girando intorno ai blocchi, si vedon mani e piè

Subito un telegramma al direttore
E mentre sull’imbocco sta il dottore
Due morti ed un ferito il treno viene
Decisi di portarli all’ospitale

Anche il ferito sul treno messo su
Al fischio di partenza
Viver non seppe più

Due di quelli erano bresciani
Cugini sulla leva dei vent’anni
Sangue bresciano, ridotto sei così
Nella tua Brescia nascere, all’estero morir.

La lontananza dalla famiglia crea situazioni di disagio fisico, psicologico e molto spesso disperazione:

Cara moglie stasera ti scrivo
Che mi trovo ai confin della Francia
Anche quest’anno c’è poca speransa
di poterti mandà dei dané

la cucina l’è molto assai cara
e di paga si piglia assi poco
e i bresciani se ne vanno al galòpo
questa vita la posso più far

cara moglie di nuovo ti scrivo
di non darla ne a’ preti né a’ frati
di darla pure ai più disperati
che nel mondo la pace non han

Nel periodo tra le due guerre oltre alla forte emigrazione all’estero, soprattutto in Francia, ci fu anche una forte immigrazione interna in modo particolare verso Milano e Torino. Oltre ai lavori di tipo stagionale, come il taglio dei boschi, il mondariso, la mietitura, la fienagione, si cominciò ad emigrare con la famiglia, o a squadre di muratori, fenomeno che si accentuò nel dopoguerra e che continua ancora anche se con modalità diverse. Questa canzone modulata su una musica precedente l’ho sentita cantare ancora negli anni settanta nei cantieri a Milano

L’è riat i magücc a Milà
Braghe rote e ‘l sidel in di mà
Per portaga la molta ai maister
Iè töcc comunisti e i següta a cantà

Il fenomeno dell’emigrazione dopo la seconda guerra è ripreso in modo massiccio per la nostra provincia soprattutto verso la Svizzera, dove le condizioni di trattamento non erano certo delle migliori. Sempre sulla musica della precedente questa canzone che potremmo dire tra le ultime dell’emigrazione in Svizzera, questo denota anche come i canti vengono anche composti in maniera estemporanea su musiche preesistenti a mo’ di stornelli.

In Isvissera bene si stà
Italiani ce n’è in quantità
Lavoriamo però siamo stanchi
Per prender franchi bisogna sgobbar

Da più mesi che noi siamo qua
Che mangiamo patate ogni dì
Nelle nostre stanzette di sera
Chi sogna chi spera alla casa tornar

In Isvissera bene si stà
delle donne ce n’è in quantità
ci son donne con certe mutande
caramba son grande che fanno incantar

Sempre più soffia il vento
Che disagi ogni dì
Questa vita è un tormento
Che si chiama elle di

Ma in Isvissera bene si stà
ma il pensiero è sempre lontan
e pensando a la mia’ bella
che sempre aspetta il suo amore lontan

A Paierna siamo arrivà
Ma di Briga dobbiamo passar
C’è il doganiere con belle maniere
Chè ‘l fa la dogana ai povr’italià

O Italia giardino di fior
Sotto il cielo turchino d’ognor
Fa risplendere il sol sulla terra
Non far più la guerra ,la pace e l’amor

Fa risplendere il sol sulla terra
Non far più la guerra la pace e l’amor

Spesso, data la giovane età dell’emigrante, si entra in conflitto con i locali per questioni di femmine. Altro esempio di canto improvvisato su un motivo comune:

Il prete di Trecate
L’ha predicat in cesa
Se i bergamasch i frega
I frega la roba nosta

E una delle più belle
Gli ha dato la risposta:
se i bergamasch i frega
l’è töta riga nosta

Nella canzone dell’emigrazione è entrata anche questa, pur con leggere varianti locali che si sono formate nel tempo, d’autore ticinese, Vittorio Castelnuovo, risalente agli anni cinquanta, senz’altro tra le ultime in ordine cronologico, ma di fatto è entrata nel repertorio tradizionale. In maniera analoga ad un’altra canzone d’autore entrata ormai nel repertorio tradizionale, anche se rifiutata dai puristi: “Cimitero di rose”.

Noi siam partiti l’altra sera al chiar della luna
Noi siam partiti per cercare un po’ di fortuna
Ma nel dolor tutto dovrò lasciare
questo l’è’l destin, questo l’è ‘l destin , per chi vuol emigrare
Ma nel dolor tutto dovrò lasciare
questo l’è ‘l destin, questo l’è ‘l destin, per chi vuol emigrare

Dimmi o’ bella dalle labbra color di rosa
Se tu volessi acconsentir, di te farei la sposa
Io vorrei far di te la mia sposa,
non mai più lontan, non mai più lontan dal paesello mio
io vorrei far di un piccol nido mio
non mai più lontan, non mai più lontan, dal paesello mio

Lontano quanti giorni tristi abbiam passato
Pensando sempre a quelli che a casa abbiam lasciato
ma nel mio cuor c’è tanta nostalgia
dei miei monti e val, dei miei monti e val, della vallata mia
Ma nel mio cuor c’è tanta nostalgia
dei miei monti e val,Dei miei monti e val, della vallata mia

Noi siam tornati nel bel maggio a maggio pieno
Quando laggiù nei nostri prati si taglia il fieno
E con gli amici che a cantar ci aspetta
siam tornati alfin, siam tornati alfin, a questa mia casetta
E con gli amici che a cantar ci aspetta
siam tornati alfin, siam tornati alfin, a questa mia casetta.

Bibliografia:
I testi provengono dal CD “ Il Bastimento Parte” , canti dell’emigrazione bergamasca 1996, dal disco della Regione Lombardia, documenti della cultura polare : “I minatori della Valtrompia” famiglia Bregoli di Pezzaze, e da registrazioni fatte sul campo dell’archivio Piergiorgio Mazzocchi.



1836 Informazioni sulla partenza per Costantinopoli della moglie di Giacomo Cavagna;
1838 Carteggio relativo per passaporto per Costantinopoli per Cavagna Giacomo e Sebastiano;

Piazzo Alto 20 aprile 1836 / 1
Piazzo Alto 20 aprile 1836 / 2

Piazzo Alto li 12 maggio 1836
La moglie di Giacomo Cavagna è partita da Genova il primo aprile 1835 in unione di suo padre per recarsi assieme a sua sorella che il marito della medesima trovasi in Costantinopoli da anni 17… che il marito Giacomo si unisca a lei tanto per li affari spirituali come corporali questo e quanto lo scrivente


Zogno 22 Maggio 1838 / 1
Zogno 22 Maggio 1838 / 2

Bergamo 31 marzo 1838

Zogno 18 agosto 1838 / 1
Zogno 18 agosto 1838 / 1


Zogno 22 maggio 1838 / 1
Zogno, 22 maggio 1838 / 2

4 aprile 1838


1 aprile 1844




Piazzo Alto 16 Febbraio 1855

8 agosto 1855


17 Settembre 1865

Piazzo Alto 18 Settembre 1855

1849 Passaporto per la Svizzera